Screening neonatale approfondimento

Lo screening neonatale genetico è in rotta di collisione con l’etica?

Lo screening neonatale genetico è in rotta di collisione con l’etica?

Robert J. Currier (Università della California) è pessimista: dal problema della privacy a quello dei costi, non sarà facile adottare questo metodo di test basato sul sequenziamento del DNA

San Francisco (USA) – Lo screening neonatale è stato istituito oltre cinquant’anni fa per identificare casi di malattie che rispecchiassero i Criteri di Wilson e Jungner, ovvero l’urgenza, la gravità e la curabilità delle patologie. Nell’ultimo decennio, tuttavia, ai programmi di screening sono state aggiunte condizioni che non soddisfano rigorosamente questi criteri e che comportano seri problemi etici nell’ambito della salute pubblica.

Inoltre, si comincia a discutere di screening neonatale genetico, e il dibattito è acceso sia in Europa (qui il punto di vista di Alessandra Ferlini, professore di Genetica Medica dell’Università di Ferrara) che negli Stati Uniti. Oltreoceano, a interrogarsi sulle opportunità ma soprattutto sui pericoli di questo nuovo scenario – con una dose maggiore di pessimismo rispetto alla collega italiana – è il dr. Robert J. Currier, del Dipartimento di Pediatria dell’Università della California, in un articolo pubblicato sull’International Journal of Neonatal Screening.

Fino ad oggi sono state identificate oltre 400 malattie genetiche che soddisfano i criteri di screening iniziali: esordio pediatrico, un determinato livello di gravità e una certa capacità di intervento. All’interno di questo gruppo c’è un sottogruppo più piccolo di disturbi con insorgenza neonatale che sono gravi e sui quali si può agire con grande efficacia: alcuni di questi, in assenza di qualsiasi altro metodo di test, potrebbero essere i target di uno screening neonatale basato sul sequenziamento del DNA. L’obiettivo di questo test, come tutti gli screening neonatali, sarebbe l’identificazione dei neonati affetti e il trattamento precoce della condizione per prevenire un esito infausto.

Tuttavia, secondo Currier, è improbabile che un tale test di screening possa essere implementato in modo efficace, per diversi motivi. Il primo è che il sequenziamento del DNA identifica le varianti nel gene, ma per alcune condizioni è difficile prevedere il possibile stato della malattia (a esordio precoce, a esordio tardivo o non penetrante). Una possibilità è restringere ulteriormente il gruppo di condizioni bersaglio a patologie che hanno correlazioni genotipo/fenotipo ben sviluppate.

Inoltre – sostiene l’esperto – sarà difficile, se non impossibile, implementare lo screening genetico neonatale in modo da trattare la popolazione in modo equo. L’interpretazione del significato clinico delle varianti rilevate dal sequenziamento si basa su database genomici. Tuttavia, i database di varianti genetiche esistenti sovrarappresentano le varianti trovate in individui di ascendenza europea e sottorappresentano quelle di individui di altre ascendenze. Di conseguenza, in questi ultimi c’è una maggiore probabilità di trovare una variante di significato incerto (VUS). Indipendentemente dal fatto che le VUS vengano comunicate o meno al paziente, ciò implica che le prestazioni dello screening saranno diverse a seconda delle popolazioni. Questo problema è particolarmente importante in alcune parti degli Stati Uniti, dove sono presenti un gran numero di immigrati dal Messico, dall’America centrale e dal Sudamerica: a causa del costo dei test genetici nei loro Paesi d’origine, questi cittadini tendono ad essere sottorappresentati nei database.

Un altro problema è quello economico: oggi il sequenziamento del genoma è 100 volte più costoso di qualsiasi test di screening neonatale. I budget per lo screening non sono illimitati e le spese non possono essere aumentate arbitrariamente. L’introduzione dello screening genetico neonatale potrebbe dunque distogliere risorse da altre responsabilità, tra cui il follow-up, i test diagnostici e il trattamento, oppure assorbire fondi di cui la sanità pubblica potrebbe aver bisogno per altre priorità.

I dati di sequenziamento, inoltre, sono estremamente personali per il neonato, ma hanno implicazioni anche per i genitori. È una sfida che rientra nell’ambito della fiducia e che richiederà al programma di screening neonatale di praticare un’estrema trasparenza su come viene utilizzato il DNA, sulla conservazione o meno del DNA residuo, sul modo in cui vengono generati i dati di sequenziamento e su come i risultati saranno salvaguardati per il futuro. La possibilità di un uso futuro dei dati o del DNA a beneficio dell’individuo (ad esempio tramite la reinterpretazione di varianti) o per benefici più generali di salute pubblica (la ricerca) dovrà essere comunicata esplicitamente. Un’altra eventualità da tenere in considerazione è che le forze dell’ordine potrebbero richiedere l’accesso al DNA o ai dati per futuri scopi di identificazione forense della persona o dei suoi parenti

La chiara alternativa è intraprendere lo screening neonatale genetico solo dopo una discussione approfondita con i genitori sul tipo di risultati e sulle implicazioni per la diagnosi e il trattamento. “Le preferenze dei genitori dovranno essere raccolte, registrate e rispettate, e il fallimento in una qualsiasi di queste aree dell’etica della salute pubblica ha il potenziale per minare drasticamente la fiducia delle persone e la convinzione che il programma di screening neonatale agisca nel loro interesse”, conclude Currier. “Lo screening neonatale è stato un programma di salute pubblica di enorme successo. Tuttavia, il suo futuro non è garantito: non dovremmo procedere senza riflettere e valutare se ciò che stiamo facendo oggi renderà la sua sopravvivenza più o meno probabile”.

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