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Malattia di Pompe: screening selettivo o screening neonatale?

Malattia di Pompe: screening selettivo o screening neonatale?

Uno studio del gruppo di Padova presenta la storia clinica di sei pazienti e dimostra come la terapia precoce sia essenziale per la prognosi

La malattia di Pompe, al momento, non compare nel pannello italiano dello screening neonatale esteso, e il dibattito su un suo futuro inserimento è in corso. Ad aggiungere un nuovo tassello e a rafforzare l’ipotesi di estendere i test anche a questa malattia da accumulo lisosomiale è uno studio appena pubblicato sulla rivista JIM – Journal of Innate Metabolism.

L’articolo presenta la storia clinica completa di sei pazienti affetti da malattia di Pompe a esordio infantile seguiti negli ultimi vent’anni dall’équipe dell’Unità Operativa Complessa di Malattie Metaboliche Ereditarie dell’Azienda Ospedaliera di Padova, diretta dal prof. Alberto Burlina.

Tre di questi sono stati diagnosticati prima del 2015 attraverso uno screening selettivo, sulla base di caratteristiche cliniche e biochimiche e con l’ulteriore conferma dei test enzimatici e genetici. Gli altri tre, invece, sono stati individuati tramite il programma di screening neonatale attivo fin dal 2015 nell’area del Triveneto, che ha già coinvolto 257.236 neonati. Oltre alla malattia di Pompe, il progetto ricerca altre tre patologie lisosomiali: la malattia di Fabry, la malattia di Gaucher e la mucopolisaccaridosi di tipo I (MPS I).

Tutti i pazienti sono stati trattati con la terapia enzimatica sostitutiva (ERT) alglucosidasi alfa a diversi dosaggi iniziali, fino a 40 mg/kg a settimana. Inoltre, due pazienti sono stati trattati con le ERT di ultima generazione: uno con avalglucosidasi alfa e uno con la combinazione di cipaglucosidasi alfa e miglustat. Il trattamento è iniziato a 1-6 mesi di età per i pazienti diagnosticati tramite screening selettivo e a soli 5–19 giorni per quelli diagnosticati con lo screening neonatale.

I tre pazienti diagnosticati tramite screening neonatale sono vivi, respirano e si nutrono in modo indipendente dopo una media di 5,3 anni di follow-up. Fra i pazienti diagnosticati tramite screening selettivo, invece, due sono morti per insufficienza respiratoria all’età di 4,5 e 9 anni e solo uno è attualmente vivo. I due pazienti deceduti hanno iniziato l’ERT rispettivamente a 5 e 6 mesi di vita, mentre il terzo l’ha iniziata nel primo mese di vita, come tutti i pazienti diagnosticati tramite screening neonatale.

Ciò, per i clinici di Padova, sottolinea come l’esito dei pazienti con malattia di Pompe a esordio infantile sia fortemente influenzato dalla diagnosi e dalla terapia precoce, anche nei pazienti CRIM-negativi, in cui cioè l’attività enzimatica è del tutto assente. Purtroppo la diagnosi è spesso tardiva nonostante la presenza di segni clinici quali ipotonia e significativo coinvolgimento cardiaco. Pertanto, l’ERT – eventualmente associata a un protocollo di induzione della tolleranza immunologica (ITI) – dovrebbe essere avviata il prima possibile dopo la conferma della diagnosi e l’accertamento dello stato CRIM (cross-reactive immunologic material) con la misurazione dell’enzima alfa glucosidasi acida (GAA).

“Un’altra differenza nella nostra popolazione di pazienti è rappresentata dal dosaggio dell’ERT con alglucosidasi alfa, che è stata somministrata alla dose standard di 20 mg/kg ogni due settimane nei primi anni dopo la sua commercializzazione”, spiegano i ricercatori. “Questo dosaggio era probabilmente sufficiente a consentire la regressione della cardiomiopatia ipertrofica, ma i benefici sul muscolo scheletrico erano minimi. Attualmente tutti i nostri pazienti vengono trattati con una dose settimanale di 40 mg/kg: questo approccio è supportato da un recente studio di coorte multicentrico su 116 pazienti con malattia di Pompe a esordio infantile, il quale ha confermato che questo dosaggio elevato migliora significativamente la sopravvivenza e la percentuale di pazienti che raggiungono la capacità di camminare. Tra i pazienti diagnosticati tramite screening neonatale, il paziente 5 ha avuto l’esito peggiore: ha sviluppato un titolo anticorpale elevato nonostante la terapia precoce (5 giorni di vita) e l’immunomodulazione preventiva. Ciò può essere spiegato dal carico iniziale di malattia”.

Un’altra scoperta importante è stata l’elevata morbilità tra i sopravvissuti a lungo termine, che hanno subito un deterioramento secondario delle funzioni motorie e respiratorie dopo un iniziale miglioramento con l’ERT. Questi risultati sono coerenti con gli studi nel mondo reale che hanno esaminato la funzione motoria in coorti più ampie di pazienti: un esempio è un recente studio di coorte europeo, retrospettivo e multicentrico, su 86 pazienti, il quale ha dimostrato che circa il 50% dei pazienti all’età di 18 mesi aveva imparato a camminare, mentre dopo i 15 anni solo il 30% era ancora in grado di farlo.

“La nostra esperienza – concludono i medici di Padova – mostra che l’associazione fra screening neonatale, immunomodulazione e trattamento precoce (dosi più elevate di ERT di prima generazione e sviluppo di approcci di ultima generazione) ha il potenziale per aumentare l’efficacia del trattamento nei pazienti con malattia di Pompe a esordio infantile e potrebbe portare in futuro a esiti migliori.

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